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SPECIALI 06/01/2014

Dal 1791 alla realtà sorvegliata del nuovo cinema.


Tra telecamere di sicurezza, intercettazioni telefoniche e generalità diffuse sui siti Internet, nel delicato periodo storico che segue lo “scandalo” del datagate, e in questa moderna moltitudine di dati, di spie e di spiati, il cinema ha saputo regalarci, in anteprima, alcune pellicole che, direttamente o indirettamente, affrontano il tema della “violazione della privacy”. Anche il set cinematografico, come la nostra vita, diventa uno spazio disciplinato e sezionato per controllare l’altro, e i personaggi, costretti in questi luoghi sorvegliati, si ritrovano a essere manipolati dallo sguardo altrui.
La regola del gioco è quella del “Panopticon”, il carcere modello progettato nel 1791, negli anni della Rivoluzione francese, dal filosofo utilitarista Jeremy Bentham. Una prigione moderna basata su una struttura circolare, con una torre al centro, sede dei sorveglianti, e una periferia suddivisa in celle, in cui i detenuti scontavano la pena. Lo scopo principale del “Panopticon” quello di rendere visibili i prigionieri a 360 gradi e 24 ore su 24 e dare loro la sensazione di essere costantemente sorvegliati senza averne l’assoluta certezza.
In questo percorso di “spionaggio cinematografico” non possiamo non partire da uno dei capolavori di Alfred Hitchcock. Sono passati più di cinquant’anni, ma la “Finestra sul cortile” (“Rear Window”, 1954) rimane un cult sul tema del voyeurismo. Jeff (James Stewart), paralizzato a casa con una gamba ingessata e costretto su una sedia, non ha altro da fare che spiare dalla sua finestra quelle del vicinato in un’attività puramente percettiva. A causa della sua immobilità, il protagonista della narrazione è uno spettatore che vede passare, sulla finestra-schermo del suo appartamento come in un film, le vite delle persone che gli abitano di fronte, cerca di ricostruire un omicidio e inizia a percepire l’amore per la sua fidanzata solo quando anch’essa diventa oggetto della sua visione.
Nel 1998, Peter Weir dirige “The Truman show”, film cult che chiude in bellezza il decennio cinematografico degli anni ’90. Truman Burbank (Jim Carrey) scopre, in ritardo rispetto allo spettatore, che la sua vita è una messinscena, una specie di soap opera allestita in un gigantesco studio televisivo. Lui, solo un personaggio-burattino, circondato da attori, tenuto d’occhio e filmato da telecamere invisibili come in un “grande fratello”. Nel 2002 è la volta di Steven Spielberg con il suo “Minorty report”, pellicola ambientata in un futuro prossimo dominato dalla tecnologia e dai sistemi di sorveglianza. Siamo a Washington, nel 2054, dove è stato predisposto un sistema in grado di prevedere i crimini: tre umani dotati di visioni e capacità paranormali.
È il 2004 quando il regista libanese Omar Naim consegna al cinema la sua opera prima, di per sé piuttosto snobbata e criticata. “The final cut” è la storia di un montatore speciale (Robin Williams) e di un impianto che, installato nel cervello prima della nascita, riprende in soggettiva tutta l’esistenza. Alan Hackman ha il compito di visionare i filmati delle vite degli altri, cancellare le parti negative e creare un giusto montaggio, il re-memory, che renda giustizia al defunto.
Veniamo infine al 2006, e a un film che tocca esplicitamente il tema dello spionaggio e del controllo totalitario dell’individuo, “Le vite degli altri” di Florian Henckel von Donnersmark, vincitore del premio Oscar per il miglior film straniero. Nella Berlino est del 1984, il lavoro del capitano Gerd Wiesler (la spia), idealista votato alla causa comunista e agente della Stasi, la polizia di Stato che controlla la vita dei cittadini della DDR, si intreccia con quella di Georg Dreyman (lo spiato), un noto drammaturgo che si attiene alle linee di partito.


scritto da Elenora Tesconi